Ero solo quel venerdì sera. Ero solo come ogni venerdì sera. Da dieci anni, alla stessa ora, sedevo al bancone di quel pub per bere la mia birra. Dieci anni da quando se ne era andata. Niente era stato più lo stesso. Niente era rimasto in piedi di me.
Il giorno che mi abbandonò, tutto quanto prese a sgretolarsi lentamente nella mia vita, capii troppo tardi che era solo la sua forza d’animo a tenere insieme tutti pezzi della mia esistenza. Ma ormai se n’era andata per sempre. Non avevo avuto nemmeno il tempo di ringraziarla, di stringerla ancora un volta e dirle quanto fosse stata importante per me in tutti quegli anni. Ero stato così cieco da non accorgermi che tutto quello che avrei dovuto fare, era solo starle vicino. Ma ero troppo impegnato. Lavoravo venti ore al giorno per cercare inutilmente una cura.
Il giorno che se ne andò tutta la consapevolezza di non avere più uno scopo nella vita gravò su di me inesorabilmente. Non riuscii mai ad accettare quella sentenza di morte. I medici fin dal principio dissero che non c’era niente da fare. Un tumore di quel tipo, così violento, così mutageno, non l’avevano mai incontrato prima. Tutte le cure virali note al tempo erano inadatte a fermare la devastazione incontrollata delle sue cellule. Lavoravo giorno e notte per capire come sviluppare una cura efficace, per capire come creare una infezione virale talmente potente da aggredire tutte le cellule tumorali in una sola ondata, e stabilizzarle introducendo materiale genetico antitumorale.
Dopo mesi di agonia da parte sua, e di sforzi da parte mia. La mia ricerca giunse a compimento. Ci ero riuscito. Finalmente avevo trovato il modo di raggiungere il mio intento. Ma non bastò. Era troppo tardi per salvarla, la malattia ormai era in tutto il suo corpo, aggrediva tutto di lei. Il suo viso che era sempre stato luminoso e splendente, iniziava a ingiallire e a decomporsi lentamente dall’interno. Gli occhi azzurri dalle sfumature grigio-verdi avevano perso di lucentezza, ed erano oramai quasi spenti. La sua bocca non riusciva più a sorridere con la grazia di quando ci eravamo conosciuti per caso cinque anni prima. Da mesi ormai era costretta a letto perché le sue ossa erano diventate troppo fragile per consentirle di muoversi senza che si rompessero in mille pezzi. In mille pezzi. Proprio come la mia vita dopo quel giorno.
Era un giorno di aprile quando successe. La cura che avevo messo a punto era nella flebo accanto al suo letto e fluiva lentamente nel suo braccio inutilmente. Dalla finestra socchiusa giungeva tiepido e tenue il profumo della primavera. La natura rinasceva dal gelo dell’inverno. Ma in quella stanza la morte vinceva su tutto. E giorno dopo giorno stava trascinando con se l’unica cosa che avevo amato davvero nella mia vita. Mi stava guardando con quei suoi occhi che erano stati un tempo dolci, ma che diventavano sempre più stanchi. Mi fece un cenno. Ormai parlare era diventato persino doloroso per lei. Mi avvicinai a letto, le presi la mano. Avvicinai la mia testa a quello che restava della sua, un tempo bellissima, ora il ritratto della sofferenza. Voleva sussurrarmi qualcosa. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Strinse la mia mano con le poche forze rimaste, e disse: “Io ti amo, ti ho sempre amato, ma non ci sarò per sempre, tutto quello che voglio, è che ti rifaccia un’altra vita. Voglio che tu sia di nuovo felice come lo siamo stati tanto tempo fa…”. Anche i miei occhi si riempirono di lacrime. Era la fine. L’aveva capito anche lei. La cura non stava funzionando. Non avrebbe mai funzionato, era troppo tardi. “Non è vero... vedrai che andrà tutto bene...” provai a di contraddirla, ma mi zittii. “Taci” sussurrò “Lo sai che non mi puoi mentire” disse lentamente “Lo leggo nei tuoi occhi, questa è la fine”.
“Ti amo” fu tutto quello che io riuscì ad aggiungere prima che la scintilla della vita si spegnesse per sempre nei suoi occhi. Fuori si udirono le grida di alcuni bambini che giocavano. La vita continuava. Ma non in quella stanza. Non per me. Non potevo accettarlo. Ne in quel momento ne mai, avrei potuto farmene una ragione.
Dovevo trovare un modo.
Dovevo trovare un modo per riaverla. Se anche solo avessi potuto, avrei dato la mia vita per riportarla in vita. Era comunque come se fossi morto senza di lei.
Ma certo.
Quel pensiero è stata l’unica cosa a darmi uno scopo in questi dieci anni.
E adesso sono qui per decidere, se vale davvero la pena di sfidare Dio, il mondo e tutto ciò che è giusto, per portare a termine il mio progetto.
Il giorno che mi abbandonò, tutto quanto prese a sgretolarsi lentamente nella mia vita, capii troppo tardi che era solo la sua forza d’animo a tenere insieme tutti pezzi della mia esistenza. Ma ormai se n’era andata per sempre. Non avevo avuto nemmeno il tempo di ringraziarla, di stringerla ancora un volta e dirle quanto fosse stata importante per me in tutti quegli anni. Ero stato così cieco da non accorgermi che tutto quello che avrei dovuto fare, era solo starle vicino. Ma ero troppo impegnato. Lavoravo venti ore al giorno per cercare inutilmente una cura.
Il giorno che se ne andò tutta la consapevolezza di non avere più uno scopo nella vita gravò su di me inesorabilmente. Non riuscii mai ad accettare quella sentenza di morte. I medici fin dal principio dissero che non c’era niente da fare. Un tumore di quel tipo, così violento, così mutageno, non l’avevano mai incontrato prima. Tutte le cure virali note al tempo erano inadatte a fermare la devastazione incontrollata delle sue cellule. Lavoravo giorno e notte per capire come sviluppare una cura efficace, per capire come creare una infezione virale talmente potente da aggredire tutte le cellule tumorali in una sola ondata, e stabilizzarle introducendo materiale genetico antitumorale.
Dopo mesi di agonia da parte sua, e di sforzi da parte mia. La mia ricerca giunse a compimento. Ci ero riuscito. Finalmente avevo trovato il modo di raggiungere il mio intento. Ma non bastò. Era troppo tardi per salvarla, la malattia ormai era in tutto il suo corpo, aggrediva tutto di lei. Il suo viso che era sempre stato luminoso e splendente, iniziava a ingiallire e a decomporsi lentamente dall’interno. Gli occhi azzurri dalle sfumature grigio-verdi avevano perso di lucentezza, ed erano oramai quasi spenti. La sua bocca non riusciva più a sorridere con la grazia di quando ci eravamo conosciuti per caso cinque anni prima. Da mesi ormai era costretta a letto perché le sue ossa erano diventate troppo fragile per consentirle di muoversi senza che si rompessero in mille pezzi. In mille pezzi. Proprio come la mia vita dopo quel giorno.
Era un giorno di aprile quando successe. La cura che avevo messo a punto era nella flebo accanto al suo letto e fluiva lentamente nel suo braccio inutilmente. Dalla finestra socchiusa giungeva tiepido e tenue il profumo della primavera. La natura rinasceva dal gelo dell’inverno. Ma in quella stanza la morte vinceva su tutto. E giorno dopo giorno stava trascinando con se l’unica cosa che avevo amato davvero nella mia vita. Mi stava guardando con quei suoi occhi che erano stati un tempo dolci, ma che diventavano sempre più stanchi. Mi fece un cenno. Ormai parlare era diventato persino doloroso per lei. Mi avvicinai a letto, le presi la mano. Avvicinai la mia testa a quello che restava della sua, un tempo bellissima, ora il ritratto della sofferenza. Voleva sussurrarmi qualcosa. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Strinse la mia mano con le poche forze rimaste, e disse: “Io ti amo, ti ho sempre amato, ma non ci sarò per sempre, tutto quello che voglio, è che ti rifaccia un’altra vita. Voglio che tu sia di nuovo felice come lo siamo stati tanto tempo fa…”. Anche i miei occhi si riempirono di lacrime. Era la fine. L’aveva capito anche lei. La cura non stava funzionando. Non avrebbe mai funzionato, era troppo tardi. “Non è vero... vedrai che andrà tutto bene...” provai a di contraddirla, ma mi zittii. “Taci” sussurrò “Lo sai che non mi puoi mentire” disse lentamente “Lo leggo nei tuoi occhi, questa è la fine”.
“Ti amo” fu tutto quello che io riuscì ad aggiungere prima che la scintilla della vita si spegnesse per sempre nei suoi occhi. Fuori si udirono le grida di alcuni bambini che giocavano. La vita continuava. Ma non in quella stanza. Non per me. Non potevo accettarlo. Ne in quel momento ne mai, avrei potuto farmene una ragione.
Dovevo trovare un modo.
Dovevo trovare un modo per riaverla. Se anche solo avessi potuto, avrei dato la mia vita per riportarla in vita. Era comunque come se fossi morto senza di lei.
Ma certo.
Quel pensiero è stata l’unica cosa a darmi uno scopo in questi dieci anni.
E adesso sono qui per decidere, se vale davvero la pena di sfidare Dio, il mondo e tutto ciò che è giusto, per portare a termine il mio progetto.
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